adorazione

La contemplazione eucaristica

foto_contemplazione_eucaristicaEstratto da una meditazione di P. Raniero Cantalamessa :

“L’ Eucaristia nostra santificazione”.

“Io guardo lui e lui guarda me”

 

Ma cosa significa, concretamente, fare contemplazione eucaristica ?

 

In se stessa, la contemplazione eucaristica non è altro che la capacità, o meglio il dono di saper stabilire un contatto da cuore a cuore con Gesù presente realmente nell’ Ostia e , attraverso lui, elevarsi al Padre nello Spirito Santo. Tutto questo, il più possibile nel silenzio, sia esteriore che interiore. Il silenzio è lo sposo prediletto della contemplazione che la custodisce, come Giuseppe custodiva Maria. Contemplare è fissarsi intuitivamente sulla realtà divina (che puo’ essere Dio stesso, un suo attributo, o un mistero della vita di Cristo) e godere della sua presenza. Nella meditazione prevale la ricerca della verità, nella contemplazione, invece, il godimento della Verità trovata. (Qui Verità è scritta con la lettera maiuscola, perché la contemplazione tende sempre alla persona, al tutto e non alle parti).

 

I grandi maestri di spirito hanno definito la contemplazione: “Uno sguardo libero, penetrante e immobile” (Ugo di San Vittore), oppure: “Uno sguardo affettivo su Dio” (san Bonaventura). Faceva perciò ottima contemplazione eucaristica quel contadino della parrocchia di Ars che passava ore e ore immobile, in chiesa, con lo sguardo rivolto al tabernacolo e che, interrogato dal Santo Curato cosa facesse così tutto il giorno, rispose: “Niente, io guardo lui e lui guarda me!” Questo ci dice che la contemplazione cristiana non è mai a senso unico. Né è rivolta al “Nulla” (come è quella di certe religioni orientali e in particolare del buddhismo). Sono sempre due sguardi che si incontrano: il nostro sguardo su Dio e lo sguardo di Dio su di noi. Se a volte si abbassa e viene meno il nostro sguardo, non viene mai meno, però, quello di Dio. La contemplazione eucaristica si riduce, talvolta, semplicemente a tenere compagnia a Gesù. A stare sotto il suo sguardo, donando anche a lui la gioia di contemplare noi, che, per quanto creature da nulla e peccatrici, siamo però il frutto della sua passione, coloro per i quali egli ha dato la vita: “Egli guarda me!”.

 

La contemplazione eucaristica non è dunque impedita, per sé, dall’ aridità che a volte si può sperimentare, sia essa dovuta alla nostra dissipazione, sia invece permessa da Dio per la nostra purificazione. Basta dare a essa un senso, rinunciando anche alla nostra soddisfazione derivante dal fervore, per far felice lui e dire, come diceva Charles de Foucauld: ” La tua felicità, Gesù, mi basta!”; cioè: mi basta che sia felice tu. Gesù ha a disposizione l’ eternità per far felici noi; noi non abbiamo che questo breve spazio del tempo per far felice lui: come rassegnarsi a perdere questa occasione che non tornerà mai più in eterno? A volte la nostra adorazione eucaristica può sembrare una perdita di tempo pura e semplice, un guardare senza vedere; invece, quale forza e quale testimonianza di fede è racchiusa in essa ! Gesù sa che potremmo andar via e fare cento altre cose che ci giustificherebbero assai di più, mentre rimaniamo lì, bruciando il nostro tempo in pura perdita. Quando non riusciamo a pregare con l’ anima, possiamo sempre pregare con il nostro corpo (anche se l’ anima è tutt’ altro che assente).

 

Contemplando Gesù nel Sacramento dell’ altare, noi realizziamo la profezia fatta al momento della morte di Gesù sulla croce: “Guarderanno a colui che hanno trafitto” (Gv. 19, 37). Anzi, tale contemplazione è essa stessa una profezia, perché anticipa ciò che faremo per sempre nella Gerusalemme celeste. E’ l’ attività più escatologica e profetica che si possa compiere nella Chiesa. Alla fine non si immolerà più l’ Agnello, né si mangeranno più le sue carni. Cesseranno, cioè, la consacrazione e la comunione; ma non cesserà la contemplazione dell’ Agnello immolato per noi. Questo infatti è ciò che i santi fanno nel cielo (cf Ap 5, 1 ss). Quando siamo davanti al tabernacolo, noi formiamo già un unico coro con la Chiesa di lassù: essi davanti, noi, per così dire, dietro l’ altare; essi nella visione, noi nella fede.

 

Nel libro dell’ esodo leggiamo che “quando Mosè scese dal monte Sinai, non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui” (Es 34, 29). Mosè non sapeva e neppure noi sapremo (perché così è bene che sia); ma forse avverrà anche a noi che, tornando tra i fratelli dopo quei momenti, qualcuno vedrà che il nostro viso è diventato raggiante, poiché abbiamo contemplato il Signore. E sarà questo il dono più bello che potremo fare a essi.