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Adorazione Eucaristica (14°)

tratto dal libro “Adorazione”di P. Serafino Tognetti

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Terzo movimento

Veniamo al terzo punto. Abbiamo detto come al primo punto ci sia il riconoscimento del peccato e come al secondo ci sia il pentimento. Il terzo punto è rompere con il peccato. Scrive san Paolo: “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale” (Rm 6,12). San Giovanni della Croce sostiene che quando un uccellino è legato con un filo grosso di canapa non vola, ma se è legato con un filo di seta sottilissimo, non vola lo stesso.

Dobbiamo andare alla ricerca di ciò che ci impedisce di volare, che sia un grande peccato, spesso come una corda di canapa, o un piccolo difetto, che comunque ci rende impossibile il volo. Anzi, spesso i peccati più piccoli non vogliamo nemmeno riconoscerli come tali. Forse sappiamo di avere qualche difetto al quale però non siamo minimamente disposti a rinunciare: ecco il filo sottile. C’è qualcosina nelle nostre anime che tendiamo a nascondere: quel vizio che ci pare innocuo, quel modo di pensare, quell’attaccamento al proprio giudizio o quel peccato che nessuno sa… Rompere con il peccato vuol dire dare un colpo coraggioso di forbici a quell’ultimo residuo di vizio, di difetto, di peccato cui siamo segretamente affezionati. Anche se fosse una cosa da poco, devo cominciare ad accettare l’ipotesi di vivere senza di esso. Mi sembra che se dovessi rinunciare a quel “peccatuccio” io sarei perduto:

non avendo più nessun legame, mi tocca volare, mi tocca essere tutto di Dio e questo mi fa paura.

La differenza fra il santo e il non santo è proprio questa. Tanti entrano nei conventi, nei seminari, si danno al Signore, ma alla fine della vita non sono santi. Perché? All’inizio l’entusiasmo è uguale per tutti e si fanno grandi progressi. Poi si arriva ad un certo punto in cui il Signore pare dica: “Tu mi hai dato tutto, mi hai dato la vita, la tua giovinezza, tutte le tue cose, ti dai da fare moltissimo, sei generoso, sei un’anima bella, lavori per Me. Mi manca una cosa sola che ancora non mi hai dato: la tua volontà. Dammi la tua volontà”. “Ma no, Signore, anche quella? Chiedimi tutto, ma non quella. Che io possa almeno dirigere la mia barchetta. Preferisco tenerla, guido io la mia vita”.

Vedete? Sono io che determino. La santità si decide proprio su questo punto e l’ultimo grande dono è proprio la voluntas propria. Così si dà a Dio la libertà di agire su di noi in piena libertà. In questo modo la nostra libertà si schiera con Dio. Abbiamo ripetuto tante volte la necessità dell’umiltà, di essere come un nulla davanti a Dio per poter adorare con cuore puro.

Ci aiutano in questo compito i sacramenti della Chiesa, che sono il continuo richiamo, il martello che spezza la volontà propria e ci rimette nella volontà di Dio. Lo Spirito Santo distrugge il peccato attraverso i sacramenti che il Signore ci ha dato; pensate alla confessione: essa comunica la forza risanatrice dello Spirito.

Non confessarsi più è una piaga terribile. Anni fa andai in pellegrinaggio in Belgio e un sacerdote mi disse: “In Belgio non ci si confessa; io per confessarmi vado in Olanda”. Come è possibile questo? Mi diceva che se uno va dal sacerdote e chiede di confessarsi, si sente dire che non serve, che basta un atto di dolore. Poi quel sacerdote mi disse che in Belgio, per confessarsi, vi erano sicuramente cinque luoghi in cui i sacerdoti confessori erano sempre a disposizione. Siccome in uno di questi posti ci sarei dovuto andare un paio di giorni dopo, mi preparai per confessarmi. Arrivai al santuario di Banneux e vidi la fila dei confessionali. Erano le nove della mattina e sarei rimasto lì tutto il giorno; non vi era ancora nessuno, ma avevo tempo. Venne la sera, e ancora nessun sacerdote era comparso. Quale tristezza vedere tutti quei confessionali vuoti, sia di penitenti che di confessori… Fu così che quella volta non potei confessarmi.

La gente si confessa poco – o non si confessa proprio – perché non ha più il senso del peccato. Perché mi devo confessare? Tanto si va tutti in Paradiso! Questa è la situazione: dobbiamo aprire gli occhi. E il guaio è che se in quei paesi vai a Messa la domenica, vedi poi la gente che va a fare la Comunione; ti domandi se siano tutti in grazia di Dio, se sono anni o decenni che non si confessano. Sono allora comunioni sacrileghe? C’è da morire di dolore al sapere che ci si accosta alla comunione in condizione di peccato mortale.

 

Due potenze che ci aiutano

Abbiamo visto tre vie conseguenziali per distruggere il male in noi: riconoscerlo, pentirsene e rompere con il peccato. Per rendere maggiormente efficaci queste azioni ci sono due “modi” che ci possono aiutare.

Il primo è la sofferenza. Scrive l’apostolo Pietro: “Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti. Chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente con il peccato” (1Pt 4,1). Verrebbe da augurare sinceramente che voi abbiate sofferto nel corpo, perché questo è un modo per rompere con il peccato. Ma non è cosa semplice da augurare al prossimo…

Perché la sofferenza ci aiuta a rompere con il male? Perché snida il peccato dalle nostre membra. Scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica Salvifici Doloris: “Soffrire significa diventare particolarmente suscettibili alle opere salvifiche dello Spirito Santo”, cioè: andare più vicini a Dio. La sofferenza ci unisce alla passione del Cristo, che tu lo voglia o non lo voglia, ma se lo vuoi è meglio. C’è un mistero nella sofferenza; anche se non le cerco volontariamente, quelle che la vita mi offre sono alla fine occasioni e grazie per poter distruggere in me il corpo del peccato.

La regina delle sofferenze, poi, è la sofferenza ingiusta, cioè le umiliazioni che la vita ci riserva. Nelle umiliazioni espiamo una quantità grande di peccati. Quando accettiamo un’umiliazione è come crollasse l’amor proprio, perché istintivamente cerchiamo sempre di mettere noi stessi davanti al prossimo per essere lodati. Passiamo molto tempo a costruire la nostra statua; ogni tanto viene il Signore e butta giù la statua con un’umiliazione e noi lo dobbiamo accettare. Avete presente quando dopo una rivoluzione demoliscono le statue dei dittatori? Una volta trovai scritto: “Le statue buttatele giù, ma i piedistalli non distruggeteli: possono sempre servire”. E in effetti serviranno al dittatore successivo… questo è l’insegnamento comune della storia.

Così è anche la nostra vita. Solo l’umiliazione ci aiuta veramente a diventare umili. Quando ricevo un’offesa, tutto in me si ribella e la mia anima vibra. Non desidero essere offeso! Soprattutto se tale accusa è ingiusta. Mi umiliano per qualcosa che non ho fatto: questo è il massimo… Se accetto in silenzio senza difendermi, acquisto tanti punti di santificazione che potrei mettermi a volare… Il problema è che nessuno vuole queste umiliazioni: una volta offesi sentiamo un terribile bisogno di difenderci. Anche nei monasteri può succedere; mettiamo il caso della madre superiora che rimprovera la suora: “Hai lasciato la luce accesa tutta la notte, abbiamo consumato la corrente elettrica per niente per colpa tua!”; e la suora, che non l’ha fatto, risponde: “Scusi madre, la prossima volta sarò più attenta”. Ebbene, il monastero si riempirebbe in quel momento di profumo, perché l’amor proprio della sorella è stato annientato ed è emersa in pienezza la grazia divina.