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Adorazione Eucaristica (11°)

tratto dal libro “Adorazione ” di P. Serafino Tognetti

continua……

LA LEZIONE DEL GIGLIO E DEGLI UCCELLI DEL CIELO

           Presentiamo ora due maestri di preghiera e dell’adorazione, due grandi teologi. Impariamo da loro, dalla loro dottrina sapiente. Il primo si chiama Giglio – un nome un po’ strano, lo so – Giglio di nome e Del Campo di cognome. Il secondo si chiama Uccello di nome e Del Cielo di cognome. Non sono io che li presento per la prima volta. Nostro Signore Gesù in persona un giorno chiamò i suoi apostoli – Gesù amava portare come esempi ciò che vedeva nella natura, le pecore, la vigna, ecc. – e disse: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, né raccolgono nei granai eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi può allungare anche di un poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo. Non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto più per voi, gente di poca fede?” (Mt 6,26-30).

Impariamo allora la lezione di questi che Gesù addita come esempi. Egli ce li dà veramente come maestri, perché dice espressamente: “guardate!”.

Una volta tenevo un corso di esercizi spirituali sul tema della preghiera a dei giovani e un giorno dissi loro che avremmo fatto una lezione all’aperto. Non sospettavano nulla e li portai fuori in un campo. Dissi di stendersi per terra sul prato; mi guardarono perplessi, ma obbedirono, incuriositi.

Con la pancia all’aria e schiena sulla terra, chiesi di mettere via i telefonini e dissi loro: “Siccome Gesù ha detto di guardare gli uccelli del cielo, noi lo facciamo: per mezz’ora state con gli occhi aperti senza addormentarvi e guardate il cielo”. Era pieno di rondini che volavano a destra e a sinistra; per trenta minuti rimanemmo in silenzio a scrutare gli spazi della volta celeste. Terminata la prova, i ragazzi fecero i loro commenti: tutti parlarono della casualità del volo degli uccelli, del perché uno invece che andare a sinistra andasse a destra; uno che invece che andare in basso volasse in alto, apparentemente senza un motivo preciso. Erano meravigliati della loro libertà e del loro volo così sciolto e indipendente. A quale istinto obbedivano? Non si erano mai posti queste domande.

Gesù terminò la sua lezione agli apostoli dicendo: “Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua volontà e tutto il resto vi verrà dato in sovrappiù” (Mt 6,33). Ma per cercare il regno di Dio bisognava passare dalle rondini e dai fiori.

Il regno del silenzio

Il primo insegnamento è quello del silenzio. Il giglio sboccia nella sua bellezza senza chiedere niente. Evidentemente segue la natura, sboccia pian piano, fa il suo dovere, tace e attende, non si chiede chi lo guarderà, non si domanda quando pioverà. All’improvviso il giglio si svela, sboccia, si manifesta. Ci dà una lezione di attesa. I fiori nei campi nascono timidamente e manifestano poi la loro bellezza quando sarà il tempo. Questo già vuol dire che occorre attendere il tempo giusto per fare le cose bene. Non sono io che devo decidere il giorno in cui il Signore si compiacerà di rivelarsi pienamente alla mia anima. La vita cristiana non è mai un “do ut des” immediato: non vado a comprare un prodotto sul mercato, pago e ricevo subito la merce.

Così la preghiera di adorazione esige pazienza. Il giglio sboccerà e sarà meraviglioso, non c’è dubbio, ma egli aspetta, giustamente, il suo tempo. Chi invece è impaziente davanti a Dio, chi non sa tacere, chi non sa entrare in un silenzio contemplativo, esigendo immediatamente un responso definitivo dal Signore, è come colui che è al telefono e parla insieme all’altro. Se io telefono a qualcuno e parlo, bisogna che l’altro stia zitto perché se parliamo tutti e due insieme, non capiamo niente. A volte diciamo: “Il Signore non mi parla mai”, ma forse sei tu che non stai mai zitto! Diceva Silesio, un grande mistico del ’600: “Taci anima, taci; se tu tacessi, Dio parlerebbe sempre”. L’uomo è poco capace di tacere e vuole subito imporre un suo detto. Imparare a tacere è difficile, perché nel silenzio l’anima si sente inutile: ella deve produrre qualcosa. Se non chiedo niente a Dio, cosa sto qua a fare? L’anima nel silenzio si sente persa. È invece vero il contrario: se perde il contatto col silenzio, perde se stessa. Pensate ai nostri nonni e bisnonni contadini: vivevano nel regno del silenzio. Immaginate oggi per un momento un mondo senza radio, televisione, messaggi auditivi, computer. I nostri nonni avevano il contatto con se stessi, specialmente se lavoravano nei campi, e passavano tutta la giornata in silenzio. Sì, parlavano tra di loro, ma quando si lavora la terra non ci si perde in chiacchiere inutili.

La parola dell’anima che sa vivere nel silenzio diventa una parola vera. Mi colpì molto una frase che trovai in un libro di un filosofo francese: “La parola deve riposare su un fondo di silenzio come l’iceberg sulle acque”[1]; sotto c’è un mondo reale di silenzio. La mia parola vera è come “partorita” da una montagna interiore di silenzio.

L’anima che non sa tacere, non sa neanche parlare. Chi parla troppo, chiacchiera in continuazione, ma non dice nulla. San Serafino di Sarov, che io chiamo “l’uomo lampione”, passò quasi tutta la vita immerso nel silenzio, prima nella foresta, poi nel monastero, nel quale chiese al superiore di poter stare in cella come recluso, senza partecipare alla vita degli altri monaci. Gli portavano da mangiare in cella, nessuno lo vedeva mai, e stette così ben sedici anni. All’età di settant’anni, la Madonna gli apparve e gli disse che poteva bastare. Da quel momento molti uomini e donne da tutta la Russia andarono a trovarlo per chiedergli una parola e una preghiera. La parola di Serafino di Sarov era stata preparata da settant’anni di quiete. La sua era bella parola, piena di fuoco perché preparata dal silenzio.

Arsenio, il grande padre del deserto, tenne un sasso in bocca per tre anni, per imporsi di non parlare. Immaginate uno che gira per tre anni con un sasso in bocca e non dice una parola? Se c’è qualcuno che parla troppo nella vostra famiglia potete suggerirgli di provarci. Forse prenderà il sasso e ve lo tirerà in testa…

Pensate allora al valore che ha il silenzio come preparazione della parola.

[1] M. Pontet, “Il mondo del silenzio”, Ed. Comunità, Milano 1951, p. 23.