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l’Adorazione Eucaristica (5°)

tratto dal libro “Adorazione ” di P Serafino Tognetti

continua dal capitolo 2

Padre Barsotti parlava sovente di “atto” e intendeva l’atto del Cristo che si offre al Padre; è precisamente in quest’atto che io entro se faccio la Comunione. Entro e vivo quell’atto, perché divento in qualche maniera quell’atto stesso.

Tale evento è così importante che addirittura si pone come atto conclusivo di tutta la storia umana: dopo la morte e resurrezione del Cristo, la vita del mondo e di ogni uomo si pone in relazione a quell’atto divino, o come salvezza eterna o come condanna definitiva. In Paradiso non faremo altro. Vi siete mai chiesti cosa faremo in Paradiso? Io sì, perché sono curioso. Quale sarà la vita del Cielo? Diceva Divo Barsotti che la vita del Paradiso è la Comunione, la stessa che noi facciamo tutti i giorni alla Messa, però vissuta eternamente e per sempre. Scriveva: Basterebbe una sola comunione a farci santi[1].

La beata Imelda Lambertini è una bella figura della Chiesa di Bologna. Morì il giorno della prima Comunione. Si comunicò, poi rimase ferma in raccoglimento e quando le fecero cenno che la Messa era finita si accorsero che era morta: in lei la prima Comunione fu anche l’ingresso in Paradiso: andò a fare per sempre quello che aveva ricevuto.

Continua Barsotti: E di fatto basta. Quando saremo in Paradiso noi vivremo una

comunione sola, ossia l’atto che ci trasferisce totalmente e per sempre in Dio, il quale ci farà vivere la sua beatitudine infinita e immensa[2]. Parafrasando possiamo commentare: quando entrerò in Paradiso, al momento della morte o dopo un periodo in Purgatorio, non farò altro che la Comunione. Ma siccome non ci sarà il tempo, in quell’atto rimarrò per sempre, cioè diventerò uno col Cristo e vivrò l’unione col Padre che è la beatitudine del Figlio, data a me senza che nessuno possa più privarmene.

 

Senza la domenica non possiamo vivere

Bene, tutto questo lo vive chiunque faccia la Comunione a Messa, ma poiché dopo mezz’ora ci dimentichiamo di quello che abbiamo ricevuto, nei giorni successivi si torna di nuovo alla Messa e si fa di nuovo la Comunione. Mi domando come si possa vivere senza fare la Comunione, perché è proprio la partecipazione all’atto del Cristo che ci trasforma, anche se non ne abbiamo piena avvertenza. Forse il grande rimpianto quando moriremo sarà delle Comunioni che non abbiamo fatto, perché ogni volta che ci cibiamo consapevolmente del Corpo del Cristo, facciamo un passo in avanti, come se l’ingresso in Cielo fosse progressivo, giorno dopo giorno.

Io tendo all’incontro con Dio perché sono fatto per questa unione; il Signore mi ha creato, mi ha voluto, mi ha fatto per la comunione con Lui. “Toglieteci tutto, ma lasciateci la domenica” diceva il cardinale Van Thuan. Egli conobbe le carceri comuniste in Vietnam e quando fu liberato ebbe un incontro a Roma con il cardinale Angelo Comastri: “Come ha fatto a vivere tanti anni in quelle condizioni disumane?”. Van Thuan rispose: “Dicevo la Messa”. Infatti con uno stratagemma riuscì a procurarsi del pane, e per il vino scrisse una lettera al nipote che gli portasse quella certa medicina di cui aveva bisogno, custodita in quel tale mobiletto di casa. Il nipote capì che lo zio chiedeva del vino, mise il vino nella boccetta, spacciandolo per sciroppo, e lo fece giungere in carcere. Così il cardinale, con due briciole di pane in una mano e due gocce di vino dall’altra, celebrava l’Eucaristia recitando le formule a memoria. Riponeva poi alcune briciole di Pane consacrato in una scatola di fiammiferi e la teneva nascosta in un pertugio del muro, in modo da avere il Santissimo in cella(!) e faceva adorazione in ginocchio quando era sicuro di non essere visto dalle guardie, esortando gli altri prigionieri a fare altrettanto. Egli avrebbe anche potuto rimanere senza Cristo, poteva anche solo pregare. Perché sentiva tale bisogno? Perché si univa all’atto del Cristo. Per questo diceva: “Toglieteci tutto, ma non la domenica!”. Con questi esempi eroici, se in Italia arriverà una legge che farà passare dal sabato al lunedì, voi direte: “No, fermi tutti. Non toglieteci la domenica!”.

Scrive don Divo: L’ansia apostolica di una universale salvezza non trova riposo che nella morte, prepara e aspira al martirio[3].

Il bisogno di essere uniti a Dio è tale che il martirio è visto come naturale conseguenza della Comunione sacramentale, o per lo meno l’ipotesi del martirio, la tensione a quest’atto ultimo e definitivo. Quando san Cipriano, grande vescovo dei primi secoli, seppe a Roma che avevano martirizzato il Papa, scrisse una lettera dicendo: facciamo festa, hanno ucciso il Papa, è morto martire. Poi anche lo stesso san Cipriano fu in seguito martirizzato. Nella Chiesa dei primi tempi il martirio era visto come una grazia. Forse oggi tale pensiero è venuto meno, ma se nella nostra Comunità qualcuno morirà martire, dobbiamo prepararci a fare festa!

 

Non vi è più solitudine

Se siamo in Cristo una sola cosa, ogni solitudine è bandita: la tristezza non esiste più.

Scrive don Divo: Devi dunque vivere nella Messa la stessa vita dei santi, la partecipazione alla vita divina nel dono dello Spirito, nella tua unione col Cristo, nella lode al Padre, la comunione coi santi: la presenza della Vergine, la moltitudine immensa degli angeli, dei santi. Non vivrai nella visione che quanto ora vivi nella fede. La tua messa è la vita del cielo[4]. È così la nostra Messa della domenica? Angeli, santi: la vita del Cielo è l’immensa comunione in Cristo. Guai a chi dice: sono solo. Potrà dire che si sente solo e allora gli diremo di andare alla Messa e di fare la Comunione. S’immergerà così nella comunione dei santi.

Una volta mi capitò di fare un ritiro di dieci giorni in piena solitudine, in un eremo in mezzo al bosco. Al quinto giorno ebbi fame – non sono stato quaranta giorni senza mangiare, non pensate a questo – allora andai a piedi a comprare del pane, camminando per una dozzina di chilometri. La fornaia mi disse: “Padre, abbiamo saputo che sta facendo un ritiro!”. Certo, nei paesi le voci corrono… “Non ha paura a stare da solo?”. Le risposi che non ero solo. Rimase un momento interdetta: “Ah, avevo capito che fosse da solo. E chi c’è con lei?”. Le risposi: “Oh, una moltitudine di gente! San Giuseppe, padre Pio, san Michele arcangelo, san Serafino di Sarov…” e continuai con tutta una sfilza dei santi. Al che la buona fornaia commentò: “Ah, va bene, voi dite così… ma tanto per dire!”. Tornai all’eremo, ma sapevo che non era “tanto per dire”: è vero che gli abitanti del Cielo non li vedo con i miei occhi, ma questo non impedisce certo la loro presenza.

Davvero la comunione dei santi proibisce di pensare di vivere nella solitudine. Il Signore s’offende se dico che sono solo, perché subito mi ribatterebbe: “Ed io? Non conto niente?”. Il fatto di non vederlo con gli occhi non importa: la nostra anima lo vede.

 

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[1] D. Barsotti, La Rivelazione dell’Amore, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1955, p. 475. Ristampa Edizioni Dehoniane Bologna 1996.

[2] Ibid.

[3] D. Barsotti, La vita in …, cit., p. 198.

[4] D. Barsotti, Luce e silenzio, 21 agosto 1985, EDB, Bologna 1993, p. 135.